venerdì 15 giugno 2018



 



L’Assedio di Milazzo (1718/19)

Dieci interminabili mesi. La popolazione di Milazzo in preda al terrore ed allo sconforto. Tutto ebbe inizio nel luglio 1718, quando le truppe di Filippo V - giunte dalla Spagna per riconquistare la Sicilia perduta cinque anni prima - si accamparono ai confini di Milazzo, lungo il tracciato dell’odierna Strada Statale 113, tra i comuni di S. Filippo del Mela (contrada Belvedere) e Merì. L’occupazione spagnola della Sicilia non poteva prescindere dalla conquista di Milazzo, allora una delle più importanti piazzeforti dell’Isola.

Da Torino il duca di Savoia Vittorio Amedeo II - dal 1713 Re di Sicilia - aveva da tempo destinato alla difesa del Castello e delle altre fortificazioni di Milazzo il reggimento piemontese Saluzzo, presto affiancato dagli alleati, ossia dalle truppe austriache dell’imperatore Carlo VI, a loro volta sostenute dalla potentissima flotta britannica di Re Giorgio I.

Nei primi due mesi e mezzo gli Spagnoli (attraverso il reggimento di cavalleria Salamanca ed i Dragoni di Lusitania) tentarono di interrompere i rifornimenti di viveri e munizioni verso Milazzo, allo scopo di ridurre la popolazione alla fame e la guarnigione piemontese alla resa. Ma i continui rinforzi di truppe austriache giunti via mare fecero fallire tale strategia (denominata «blocco di Milazzo») e così, dopo la sanguinosa battaglia del 15 ottobre 1718 - che vide prevalere l’esercito spagnolo, avvicinatosi da qualche settimana sino a piazzare il proprio accampamento nel cuore della Piana, a ridosso del centro urbano - la popolazione fu tormentata per altri 7 lunghi mesi da quello che i trattati militari dell’epoca definivano un assedio lento, consistente in continue offese d’artiglieria condotte a distanza con mortai e cannoni d’ambo le parti. Con effetti devastanti per la città e i suoi abitanti, i suoi edifici civili e religiosi, la sua economia.
 



La città ferita: interi quartieri abbattuti ed economia in ginocchio

Non si contavano le abitazioni e le chiese distrutte dalle bombe e dalle cannonate spagnole. Ad esse si aggiungevano quelle demolite per ordine delle autorità militari austriache: lo spietato generale George Olivier Wallis (1671-1743), allo scopo di godere di un’ottima visuale per prevenire gli attacchi delle truppe nemiche, fece radere al suolo interi quartieri del centro urbano, soprattutto lungo l’odierna via Umberto I.

Lo stesso generale Wallis ordinò la rimozione di tetti, porte e finestre dei fabbricati risparmiati dalle artiglierie nemiche e dagli abbattimenti che lui stesso aveva disposto, al fine di destinarne il legname a trincee ed altre opere militari. Abbandonando quel che restava di tali fabbricati ai saccheggi ed al vandalismo dei propri soldati, i quali approfittavano dell’assenza dei proprietari, da tempo rifugiatisi sulle colline circostanti o a Capo Milazzo per sfuggire agli orrori della guerra.

Tra gli edifici scoperchiati dalle truppe austriache si ricordano i magazzini della Tonnara di Milazzo, sulla cui area sorge oggi un distributore di carburanti posto di fronte la vecchia stazione ferroviaria. Furono successivamente occupati dagli Spagnoli che vi piazzarono accanto una batteria di artiglierie. Quest’ultima e l’altra piazzata dagli stessi Spagnoli in contrada Albero seminarono il terrore nel Porto, devastando la chiesa del Carmine, ricostruita proprio all’indomani dell’Assedio, come si evince peraltro da una lapide marmorea in latino affissa al suo interno.

Altrettanto devastanti furono i danni arrecati ai vastissimi vigneti che facevano di Milazzo una delle più importanti piazze vinicole d’Italia. Tanto che, finito l’Assedio, i proprietari terrieri tornati nella Piana per esaminare i propri appezzamenti ebbero non poche difficoltà a riconoscerli, stravolti dal continuo calpestio di fanteria e cavalleria e dagli scavi delle trincee. Il solo aristocratico milazzese Marcello Cirino lamentò, nel suo vasto feudo di S. Basilio che iniziava in contrada S. Marina, la distruzione di ben 16 ettari di vigneti, per un totale di 102.000 viti sradicate che gli fruttavano ogni anno 500 ettolitri di vino da taglio, circa un centesimo dell’intera produzione milazzese, che allora ascendeva a 48.000 ettolitri.


 
 
 

 


 



I magazzini della Tonnara di Milazzo scoperchiati dalle truppe austriache e la vicina batteria di cannoni spagnoli
 


 

George Olivier Wallis (1671-1743)
 
 
 
 
La città divisa
Quando l’Assedio ebbe inizio (ottobre 1718) gran parte della popolazione si trovava nei vigneti della Piana a vendemmiare. L’acuirsi dello scontro bellico impedì all’improvviso il transito delle persone. Milazzo si spaccò così in due: il centro urbano (allora cinto e difeso da mura) ed il Capo rimasero saldamente sotto il controllo delle truppe piemontesi ed austriache, mentre la Piana cadeva sotto il dominio degli Spagnoli, alla cui obbedienza si erano sottomessi anche i comuni confinanti.
Mentre durante i mesi del “blocco” (luglio-settembre) fu possibile spostarsi a piedi o a cavallo dal centro urbano alla Piana e viceversa, pur se con limitazioni sempre crescenti, da ottobre i transiti da e per la periferia furono severamente proibiti. E così intere famiglie si trovarono improvvisamente divise: bambini strappati all’affetto dei genitori, mogli lontani dai propri mariti. Per riabbracciare i propri cari trasferitisi nella Piana per le vendemmie i Milazzesi dovettero attendere la fine dell’Assedio (maggio 1719). Alcuni di loro, pur di ricongiungersi alla propria famiglia, tentarono un’avventurosa fuga via mare, ostacolata dalle artiglierie e dalla fucileria delle truppe spagnole. Ma non tutti trovavano il coraggio di affrontare un’impresa così rischiosa.




 
Trincee, gabbioni e fascine

L’Assedio di Milazzo fu una guerra di trincea. Gli Spagnoli costruirono 2 trincee così lunghe da chiudere la penisola da un mare all’altro. Erano le due “linee di contravvallazione”, che avevano lo scopo di impedire l’uscita del nemico dal centro urbano. Quell’uscita che il 15 ottobre 1718, in assenza di contravvallazioni, aveva originato una sanguinosa battaglia costata molto vite umane alle truppe spagnole.

Trattandosi di fossati da realizzarsi sotto la pioggia di bombe e palle di cannone nemiche, le linee di contravvallazione nascevano come zappe (in francese sapes), stretti cunicoli realizzati da esperti zappatori (sapeurs) avvezzi a lavorare sotto il fuoco nemico e per questo remunerati con alti compensi.

Per realizzare una zappa erano necessari 4 zappatori. Il primo iniziava a scavare riparandosi con una sorta di piccolo carretto denominato mantelet, seguito dagli altri che via via scavavano il fossato sempre più in profondità.

La terra scavata veniva man mano gettata entro gabbioni (gabions) che, posti l’uno accanto all’altro, fungevano da parapetto della zappa. Il mantelet proteggeva dal fuoco nemico il primo zappatore durante la posa del gabbione vuoto. La lunga sequenza dei gabbioni, posti come orlatura e parapetto della trincea, veniva a sua volta ricoperta da fascine e quindi da terra e pietrame.

  
 

Trincee dell’Assedio di Milazzo

- trincea rossa: prima linea di contravvallazione spagnola;

- trincea gialla: seconda linea di contravvallazione spagnola;

- trincea azzurra: trinceramenti austro-piemontesi;

- cerchi rossi: batterie di cannoni spagnoli;

- cerchi arancioni: batterie di mortai spagnoli;

- linea blu: via M. Regis tra piazza Mazzini e piazza Nastasi;

- linea viola: via XX Settembre tra via Regis e via Cosenz
 



 
The process of sapping in the 17th century.
From Vauban, De l’attaque et de la defense des places, 1737


 



La pioggia infernale dei mortai

Tra le armi più temibili dell’Assedio di Milazzo figurano i mortai, artiglierie a tiro curvo impiegate per colpire con sassi i militari di guardia nelle trincee (per questo motivo spesso coperte con tavoloni) o per sfondare con palle di pietra i tetti delle abitazioni, provocando vittime e terrore tra la popolazione della città posta sotto assedio. Venivano anche impiegati per sparare bombe e granate.

Si distinguevano in mortai e trabucchi, a seconda delle posizione degli orecchioni, così venivano chiamati i due bracci collocati a metà di ciascun pezzo, nei primi, o in fondo alla culatta, nei secondi. Ma solitamente erano tutti indicati genericamente come mortai.

 
I mortai si caricavano inserendo in fondo alla cavità interna la polvere da sparo, ricoperta da terra e fieno ben calcati e adagiando sopra questi ultimi la bomba o i sassi. L’accensione avveniva inserendo polvere finissima nel minuscolo foro (focone o lumiera) che attraversava lo spessore della parete superiore del pezzo. Un’asta terminante con una miccia a lenta combustione veniva adagiata su tale foro per far partire il colpo.

 




 


 
La flotta dell’Ammiraglio Byng
La riconquista della Sicilia da parte del re Filippo V di Spagna fu penalizzata pesantemente dalla sconfitta subita dalla flotta spagnola nelle acque di Capo Passero (battaglia navale dell’11 agosto 1718 all'estremità sud-orientale della Sicilia). Da allora la flotta britannica, che agli ordini dell’ammiraglio George Byng aveva catturato a Capo Passero le navi militari di Filippo V, divenne padrona assoluta del Mediterraneo, ostacolando o impedendo i rifornimenti di armi e munizioni destinati alle truppe spagnole di Milazzo e delle altre piazzeforti dell’Isola. «Il disturbo arrecato dalla navi britanniche è notevole», scriveva da Milazzo il viceré spagnolo marchese di Lede nel dicembre 1718: «vano sperare in un’uscita della flotta inglese dal Mediterraneo, in quanto il Parlamento di Londra ha appena dato il via libera al sovrano».

La presenza nella rada di Milazzo delle unità navali inglesi, in particolare della nave ammiraglia Barfluer (a bordo della quale si trovava l’ammiraglio Byng), fu una costante durante l’Assedio. Oltre a presidiare le coste siciliane, scortavano da Napoli e dalla Calabria i rifornimenti di viveri e munizioni destinati alle truppe austriache di Milazzo loro alleate. Per sfuggire alle artiglierie spagnole, puntate costantemente verso il Porto, ormeggiavano lungo le coste del Capo.
  


 L'Ammiraglio George Byng


L’assedio dei disertori

Sebbene condannate dagli ordinamenti militari di entrambi gli schieramenti, le diserzioni furono ampiamente tollerate nell’Assedio di Milazzo. Nell’autunno 1718 gli Spagnoli arruolarono numerosi disertori austriaci - in fuga per la mancata riscossione delle paghe - per reintegrare i propri battaglioni decimati da morti e feriti. Anche se il viceré spagnolo si guardava bene dal costituire compagnie formate da soli disertori, preferendo prudentemente sparpagliarli tra i vari reggimenti. Il ricorso ai disertori fu una necessità per l’esercito spagnolo, penalizzato tra l’altro dalla pressante vigilanza delle navi inglesi che scorazzavano nel Mediterraneo per impedire i trasferimenti delle truppe nemiche. In assenza di rinforzi, agli Spagnoli non restava dunque altra scelta che l’arruolamento dei disertori.

A disertare per motivi economici anche gli stessi militari spagnoli, penalizzati nell’aprile 1719 dalla cattura - da parte delle navi inglesi - di un vascello carico di denaro destinato proprio alle loro paghe. La notizia di tale cattura giunse alle truppe spagnole grazie a bigliettini informativi lanciati con le fionde dalle trincee nemiche, proprio allo scopo di indurre i soldati del Re di Spagna alla diserzione, spesso eseguita rocambolescamente a nuoto da un accampamento all’altro. Anche se non tutti riuscivano a farcela: il 19 aprile 1719 i Milazzesi assistettero alla brutale esecuzione di un disertore austriaco riacciuffato dai suoi ed impiccato in prossimità della chiesa di S. Giuseppe.
 
 

 


 





La Battaglia del 15 ottobre 1718

Rappresentò il momento più sanguinoso dell’Assedio. Approfittando dell’assenza di trincea di protezione nemica (la contravvallazione che gli Spagnoli avrebbero costruito appena 2 giorni dopo), le truppe austriache ed il reggimento Saluzzo uscirono dal centro urbano per attaccare l’accampamento spagnolo nella Piana.

Il primo scontro si svolse alla postazione spagnola avanzata di contrada S. Giovanni (casa de S. Juan). Malgrado la strenua difesa d’un centinaio di uomini agli ordini del colonnello del reggimento di Aragona Manuel de Sada y Antillón e del comandante delle Reali Guardie Vallone conte di Zueveghem, che in quest’azione cadde prigioniero, gli Spagnoli soccombettero, aprendo la strada alle truppe nemiche che in breve riuscirono a conquistare il centro e la sinistra dell’accampamento spagnolo, tra le contrade Barone e la spiaggia di Ponente (contrada Casazza), quest’ultima presidiata dalla cavalleria (reggimento Salamanca e dragoni Lusitania) e dal vicino reggimento Milano.

La conquista dell’accampamento spagnolo fu accompagnata da razzie e saccheggi da parte delle truppe imperiali, costituite dai battaglioni di fanteria Guidobald von Starhemberg, Maximilian von Starhemberg, Lorena, Wallis, Wetzel e Toldo, tutti ai comandi del generale George Oliver Wallis, e dai dragoni a cavallo Tige, comandati invece dal conte Giulio Veterani.

Le ruberie al campo spagnolo (furono sottratti perlopiù denari, ma anche armi e munizioni) consentirono ai soldati austriaci di arrotondare le magre paghe loro erogate e furono descritte anni dopo da un protagonista della battaglia, Jaime Miguel de Guzmán y Dávalos Spinola, fondatore e colonnello dei dragoni Lusitania.

Favoriti dalle razzie che distrassero le truppe nemiche, gli Spagnoli riuscirono ben presto a riconquistare le posizioni perdute, ricacciando il nemico nel centro urbano, grazie anche al soccorso del reggimento di cavalleria Farnese, appena giunto a Milazzo assieme al viceré marchese di Lede, comandante supremo delle truppe di Filippo V in Sicilia. La disfatta della cavalleria nemica (i Dragoni Tige) fu amplificata dall’eclatante cattura del generale Giulio Veterani, imprigionato da un tenente del Farnese, il marchese di Bondad Real. Agli ordini del futuro viceré del Perù, José de Armendáriz y Perurena, fu invece riconquistata la postazione avanzata di S. Giovanni, costringendo molti austriaci a tuffarsi in mare pur di salvarsi.

La sconfitta imperiale - 3.000 uomini tra morti e feriti e più di mille prigionieri - costò cara al napoletano Giovanni Carafa, comandante supremo delle truppe austriache a Milazzo, presto rimosso dall’incarico. In una relazione inviata a Vienna il 16 ottobre 1718 si giustificava riferendo che sia la cavalleria spagnola (dragoni Lusitania) quanto la sua (dragoni Tige) indossavano uniformi gialle, circostanza che confuse i suoi, i quali furono così sorpresi dal nemico.
 
 
Jaime Miguel de Guzmán y Dávalos Spinola, Marques de la Mina 
fondatore e colonnello dei Dragoni di Lusitania 
 

Marques de la Mina: stato di servizio
 
 
 
Lusitania, 1769
 
 Manuel de Sada y Antillón
 
 



Il Castello e la città murata ai tempi dell’Assedio

Occupato già prima della guerra dai militari del reggimento Saluzzo, il Castello di Milazzo non potè ospitare per motivi di capienza anche gli alleati austriaci, accampati tra la chiesa di S. Papino e la Grotta di Polifemo ed in parte al Capo. Fece eccezione il loro comandante, il generale Zumjungen, che per lungo tempo risiedette nel convento di S. Domenico, ai piedi della scalinata che conduce all’ingresso della cittadella fortificata o città murata.

L’intensificarsi della guerra spinse invece il comandante piemontese Missegla a trasferirsi dalla sua dimora abituale al Borgo, il Palazzo del Governatore, alla casa dell’aristocratica famiglia Lucifero, posta accanto alle mura della cinta aragonese. Proprio il Missegla ordinò lo sgombero del Duomo per adibirlo a deposito di frumenti e soprattutto ad ospedale militare. Dispose anche lo sgombero del Monastero delle Benedettine per adibirlo a deposito viveri e munizioni, trasferendo le monache nel convento del Borgo attiguo alla chiesa del SS. Salvatore, posta dirimpetto all’altra chiesa (S. Gaetano) impiegata provvisoriamente come cattedrale.

Nel febbraio 1719, a causa dell’elevato numero di soggetti ricoverati nel Duomo (erano ben 260) ed allo scopo di prevenire un’epidemia (non c’era igiene ed il fetore appestava la chiesa), furono trasferiti in Calabria 75 pazienti in grado di tollerare un viaggio via mare. Il 25 marzo 1719 fu seppellito nel Duomo con tanto di lapide il marchese d’Andorno, comandante supremo delle truppe piemontesi in Sicilia, deceduto per malattia proprio a Milazzo. Di lì a poco la cucina al servizio dell’ospedale militare, realizzata sotto la nuova Sacrestia del 1704, rischiò di incendiarne i pregevoli arredi lignei.

Il 23 maggio 1719 morì tragicamente nel sonno un soldato del reggimento Saluzzo, precipitato dalle mura della cittadella fortificata. Non riuscendo a chiudere occhio a causa delle pulci che infestavano il suo giaciglio, decise di allontanarsi dalla caserma in cui risiedeva per dormire all’aperto. Ma l’incauta scelta di distendersi sulla sommità delle mura gli fu fatale.

 
1. Cathedral - Duomo antico 
2. Ancient City Hall - Palazzo dei Giurati (Municipio)
3. Benedectine Monastery - Monastero delle Benedettine



 


Il codice cifrato impiegato dalle truppe spagnole

Per evitare che le informazioni riservate contenute nella corrispondenza di guerra da e per la Spagna potessero cadere in mani nemiche le autorità militari spagnole adottarono un efficace codice cifrato. Attraverso l’esame della corrispondenza decifrata del viceré marchese di Lede, inviata da Milazzo nell’autunno 1718 ed oggi custodita presso l’Archivo General de Simancas, è stato possibile ricostruire gran parte di tale codice cifrato, costituito perlopiù da numeri corrispondenti a sillabe o a singole lettere dell’alfabeto. Lo schema qui riprodotto elenca i singoli numeri impiegati, alcuni dei quali non mancavano di indicare termini o espressioni di uso comune: è il caso ad esempio di «regimiento di artilleria» o di «Su Magestad», che la tabella associa rispettivamente ai numeri 406 e 713.