L’Assedio di Milazzo (1718/19)
Dieci interminabili mesi. La popolazione di Milazzo in
preda al terrore ed allo sconforto. Tutto ebbe inizio nel luglio 1718, quando
le truppe di Filippo V - giunte dalla Spagna per riconquistare la Sicilia
perduta cinque anni prima - si accamparono ai confini di Milazzo, lungo il
tracciato dell’odierna Strada Statale 113, tra i comuni di S. Filippo del Mela
(contrada Belvedere) e Merì. L’occupazione spagnola della Sicilia non poteva
prescindere dalla conquista di Milazzo, allora una delle più importanti
piazzeforti dell’Isola.
Da Torino il duca di Savoia Vittorio Amedeo II - dal
1713 Re di Sicilia - aveva da tempo destinato alla difesa del Castello e delle
altre fortificazioni di Milazzo il reggimento piemontese Saluzzo, presto affiancato dagli alleati, ossia dalle truppe austriache
dell’imperatore Carlo VI, a loro volta sostenute dalla potentissima flotta
britannica di Re Giorgio I.
Nei primi due mesi e mezzo gli Spagnoli (attraverso il
reggimento di cavalleria Salamanca ed
i Dragoni di Lusitania) tentarono di
interrompere i rifornimenti di viveri e munizioni verso Milazzo, allo scopo di
ridurre la popolazione alla fame e la guarnigione piemontese alla resa. Ma i
continui rinforzi di truppe austriache giunti via mare fecero fallire tale
strategia (denominata «blocco di Milazzo») e così, dopo la sanguinosa battaglia
del 15 ottobre 1718 - che vide prevalere l’esercito spagnolo, avvicinatosi da
qualche settimana sino a piazzare il proprio accampamento nel cuore della Piana,
a ridosso del centro urbano - la popolazione fu tormentata per altri 7 lunghi
mesi da quello che i trattati militari dell’epoca definivano un assedio lento,
consistente in continue offese d’artiglieria condotte a distanza con mortai e
cannoni d’ambo le parti. Con effetti devastanti per la città e i suoi abitanti,
i suoi edifici civili e religiosi, la sua economia.
La città ferita: interi
quartieri abbattuti ed economia in ginocchio
Non
si contavano le abitazioni e le chiese distrutte dalle bombe e dalle cannonate
spagnole. Ad esse si aggiungevano quelle demolite per ordine delle autorità
militari austriache: lo spietato generale George Olivier Wallis (1671-1743),
allo scopo di godere di un’ottima visuale per prevenire gli attacchi delle
truppe nemiche, fece radere al suolo interi quartieri del centro urbano,
soprattutto lungo l’odierna via Umberto I.
Lo
stesso generale Wallis ordinò la rimozione di tetti, porte e finestre dei
fabbricati risparmiati dalle artiglierie nemiche e dagli abbattimenti che lui
stesso aveva disposto, al fine di destinarne il legname a trincee ed altre
opere militari. Abbandonando quel che restava di tali fabbricati ai saccheggi
ed al vandalismo dei propri soldati, i quali approfittavano dell’assenza dei
proprietari, da tempo rifugiatisi sulle colline circostanti o a Capo Milazzo
per sfuggire agli orrori della guerra.
Tra
gli edifici scoperchiati dalle truppe austriache si ricordano i magazzini della
Tonnara di Milazzo, sulla cui area sorge oggi un distributore di carburanti
posto di fronte la vecchia stazione ferroviaria. Furono successivamente
occupati dagli Spagnoli che vi piazzarono accanto una batteria di artiglierie.
Quest’ultima e l’altra piazzata dagli stessi Spagnoli in contrada Albero
seminarono il terrore nel Porto, devastando la chiesa del Carmine, ricostruita
proprio all’indomani dell’Assedio, come si evince peraltro da una lapide
marmorea in latino affissa al suo interno.
Altrettanto
devastanti furono i danni arrecati ai vastissimi vigneti che facevano di
Milazzo una delle più importanti piazze vinicole d’Italia. Tanto che, finito
l’Assedio, i proprietari terrieri tornati nella Piana per esaminare i propri
appezzamenti ebbero non poche difficoltà a riconoscerli, stravolti dal continuo
calpestio di fanteria e cavalleria e dagli scavi delle trincee. Il solo
aristocratico milazzese Marcello Cirino lamentò, nel suo vasto feudo di S.
Basilio che iniziava in contrada S. Marina, la distruzione di ben 16 ettari di
vigneti, per un totale di 102.000 viti sradicate che gli fruttavano ogni anno
500 ettolitri di vino da taglio, circa un centesimo dell’intera produzione
milazzese, che allora ascendeva a 48.000 ettolitri.
I magazzini della Tonnara di Milazzo scoperchiati dalle truppe austriache e la vicina batteria di cannoni spagnoli
George Olivier Wallis (1671-1743)
La città divisa
Quando
l’Assedio ebbe inizio (ottobre 1718) gran parte della popolazione si trovava
nei vigneti della Piana a vendemmiare. L’acuirsi dello scontro bellico impedì
all’improvviso il transito delle persone. Milazzo si spaccò così in due: il
centro urbano (allora cinto e difeso da mura) ed il Capo rimasero saldamente
sotto il controllo delle truppe piemontesi ed austriache, mentre la Piana
cadeva sotto il dominio degli Spagnoli, alla cui obbedienza si erano sottomessi
anche i comuni confinanti.
Mentre
durante i mesi del “blocco” (luglio-settembre) fu possibile spostarsi a piedi o
a cavallo dal centro urbano alla Piana e viceversa, pur se con limitazioni
sempre crescenti, da ottobre i transiti da e per la periferia furono
severamente proibiti. E così intere famiglie si trovarono improvvisamente
divise: bambini strappati all’affetto dei genitori, mogli lontani dai propri
mariti. Per riabbracciare i propri cari trasferitisi nella Piana per le
vendemmie i Milazzesi dovettero attendere la fine dell’Assedio (maggio 1719).
Alcuni di loro, pur di ricongiungersi alla propria famiglia, tentarono
un’avventurosa fuga via mare, ostacolata dalle artiglierie e dalla fucileria
delle truppe spagnole. Ma non tutti trovavano il coraggio di affrontare
un’impresa così rischiosa.
Trincee, gabbioni e fascine
L’Assedio
di Milazzo fu una guerra di trincea. Gli Spagnoli costruirono 2 trincee così
lunghe da chiudere la penisola da un mare all’altro. Erano le due “linee di
contravvallazione”, che avevano lo scopo di impedire l’uscita del nemico dal
centro urbano. Quell’uscita che il 15 ottobre 1718, in assenza di
contravvallazioni, aveva originato una sanguinosa battaglia costata molto vite
umane alle truppe spagnole.
Trattandosi
di fossati da realizzarsi sotto la pioggia di bombe e palle di cannone nemiche,
le linee di contravvallazione nascevano come zappe (in francese sapes),
stretti cunicoli realizzati da esperti zappatori (sapeurs) avvezzi a
lavorare sotto il fuoco nemico e per questo remunerati con alti compensi.
Per
realizzare una zappa erano necessari 4 zappatori. Il primo iniziava a scavare
riparandosi con una sorta di piccolo carretto denominato mantelet,
seguito dagli altri che via via scavavano il fossato sempre più in profondità.
La
terra scavata veniva man mano gettata entro gabbioni (gabions) che,
posti l’uno accanto all’altro, fungevano da parapetto della zappa. Il mantelet
proteggeva dal fuoco nemico il primo zappatore durante la posa del gabbione
vuoto. La lunga sequenza dei gabbioni, posti come orlatura e parapetto della
trincea, veniva a sua volta ricoperta da fascine e quindi da terra e
pietrame.
Trincee dell’Assedio di Milazzo
- trincea rossa:
prima linea di contravvallazione spagnola;
- trincea gialla:
seconda linea di contravvallazione spagnola;
- trincea azzurra:
trinceramenti austro-piemontesi;
- cerchi rossi:
batterie di cannoni spagnoli;
- cerchi
arancioni: batterie di mortai spagnoli;
- linea blu: via
M. Regis tra piazza Mazzini e piazza Nastasi;
- linea viola: via
XX Settembre tra via Regis e via Cosenz
The process of sapping in the 17th century.
From Vauban, De l’attaque et de la defense des places, 1737
La pioggia infernale dei
mortai
Tra
le armi più temibili dell’Assedio di Milazzo figurano i mortai, artiglierie a
tiro curvo impiegate per colpire con sassi i militari di guardia nelle trincee
(per questo motivo spesso coperte con tavoloni) o per sfondare con palle di
pietra i tetti delle abitazioni, provocando vittime e terrore tra la
popolazione della città posta sotto assedio. Venivano anche impiegati per
sparare bombe e granate.
Si
distinguevano in mortai e trabucchi, a seconda delle posizione
degli orecchioni, così venivano chiamati i due bracci collocati a metà
di ciascun pezzo, nei primi, o in fondo alla culatta, nei secondi. Ma
solitamente erano tutti indicati genericamente come mortai.
I
mortai si caricavano inserendo in fondo alla cavità interna la polvere da
sparo, ricoperta da terra e fieno ben calcati e adagiando sopra questi ultimi
la bomba o i sassi. L’accensione avveniva inserendo polvere finissima nel
minuscolo foro (focone o lumiera) che attraversava lo spessore
della parete superiore del pezzo. Un’asta terminante con una miccia a lenta
combustione veniva adagiata su tale foro per far partire il colpo.
La flotta dell’Ammiraglio Byng
La
riconquista della Sicilia da parte del re Filippo V di Spagna fu penalizzata
pesantemente dalla sconfitta subita dalla flotta spagnola nelle acque di Capo
Passero (battaglia navale dell’11 agosto 1718 all'estremità sud-orientale della
Sicilia). Da allora la flotta britannica, che agli ordini dell’ammiraglio
George Byng aveva catturato a Capo Passero le navi militari di Filippo V,
divenne padrona assoluta del Mediterraneo, ostacolando o impedendo i
rifornimenti di armi e munizioni destinati alle truppe spagnole di Milazzo e
delle altre piazzeforti dell’Isola. «Il disturbo arrecato dalla navi
britanniche è notevole», scriveva da Milazzo il viceré spagnolo marchese di
Lede nel dicembre 1718: «vano sperare in un’uscita della flotta inglese dal
Mediterraneo, in quanto il Parlamento di Londra ha appena dato il via libera al
sovrano».
La
presenza nella rada di Milazzo delle unità navali inglesi, in particolare della
nave ammiraglia Barfluer (a bordo della quale si trovava l’ammiraglio
Byng), fu una costante durante l’Assedio. Oltre a presidiare le coste
siciliane, scortavano da Napoli e dalla Calabria i rifornimenti di viveri e
munizioni destinati alle truppe austriache di Milazzo loro alleate. Per
sfuggire alle artiglierie spagnole, puntate costantemente verso il Porto,
ormeggiavano lungo le coste del Capo.
L'Ammiraglio George Byng
L’assedio dei disertori
Sebbene
condannate dagli ordinamenti militari di entrambi gli schieramenti, le
diserzioni furono ampiamente tollerate nell’Assedio di Milazzo. Nell’autunno
1718 gli Spagnoli arruolarono numerosi disertori austriaci - in fuga per la
mancata riscossione delle paghe - per reintegrare i propri battaglioni decimati
da morti e feriti. Anche se il viceré spagnolo si guardava bene dal costituire
compagnie formate da soli disertori, preferendo prudentemente sparpagliarli tra
i vari reggimenti. Il ricorso ai disertori fu una necessità per l’esercito
spagnolo, penalizzato tra l’altro dalla pressante vigilanza delle navi inglesi
che scorazzavano nel Mediterraneo per impedire i trasferimenti delle truppe
nemiche. In assenza di rinforzi, agli Spagnoli non restava dunque altra scelta
che l’arruolamento dei disertori.
A
disertare per motivi economici anche gli stessi militari spagnoli, penalizzati
nell’aprile 1719 dalla cattura - da parte delle navi inglesi - di un vascello
carico di denaro destinato proprio alle loro paghe. La notizia di tale cattura
giunse alle truppe spagnole grazie a bigliettini informativi lanciati con le
fionde dalle trincee nemiche, proprio allo scopo di indurre i soldati del Re di
Spagna alla diserzione, spesso eseguita rocambolescamente a nuoto da un
accampamento all’altro. Anche se non tutti riuscivano a farcela: il 19 aprile
1719 i Milazzesi assistettero alla brutale esecuzione di un disertore austriaco
riacciuffato dai suoi ed impiccato in prossimità della chiesa di S. Giuseppe.

La Battaglia
del 15 ottobre 1718
Rappresentò il momento più sanguinoso dell’Assedio.
Approfittando dell’assenza di trincea di protezione nemica (la contravvallazione che gli Spagnoli
avrebbero costruito appena 2 giorni dopo), le truppe austriache ed il
reggimento Saluzzo uscirono dal
centro urbano per attaccare l’accampamento spagnolo nella Piana.
Il primo scontro si svolse alla postazione spagnola
avanzata di contrada S. Giovanni (casa de
S. Juan). Malgrado la strenua difesa d’un centinaio di uomini agli ordini
del colonnello del reggimento di Aragona Manuel de Sada y Antillón e del
comandante delle Reali Guardie Vallone
conte di Zueveghem, che in quest’azione cadde prigioniero, gli Spagnoli
soccombettero, aprendo la strada alle truppe nemiche che in breve riuscirono a
conquistare il centro e la sinistra dell’accampamento spagnolo, tra le contrade
Barone e la spiaggia di Ponente (contrada Casazza), quest’ultima presidiata dalla cavalleria
(reggimento Salamanca e dragoni Lusitania) e dal vicino
reggimento Milano.
La conquista dell’accampamento spagnolo fu
accompagnata da razzie e saccheggi da parte delle truppe imperiali, costituite
dai battaglioni di fanteria Guidobald von Starhemberg, Maximilian von
Starhemberg, Lorena, Wallis,
Wetzel e Toldo, tutti ai comandi del generale George Oliver
Wallis, e dai dragoni a cavallo Tige, comandati invece dal conte Giulio Veterani.
Le ruberie al campo spagnolo (furono sottratti perlopiù
denari, ma anche armi e munizioni) consentirono ai soldati austriaci di
arrotondare le magre paghe loro erogate e furono descritte anni dopo da un
protagonista della battaglia, Jaime
Miguel de Guzmán y Dávalos Spinola, fondatore e colonnello dei
dragoni Lusitania.
Favoriti
dalle razzie che distrassero le truppe nemiche, gli Spagnoli riuscirono ben
presto a riconquistare le posizioni perdute, ricacciando il nemico nel centro
urbano, grazie anche al soccorso del
reggimento di cavalleria Farnese,
appena giunto a Milazzo assieme al viceré marchese di Lede, comandante supremo
delle truppe di Filippo V in Sicilia. La disfatta della cavalleria nemica (i
Dragoni Tige) fu amplificata
dall’eclatante cattura del generale Giulio Veterani, imprigionato da un tenente
del Farnese, il marchese di Bondad Real. Agli ordini del futuro viceré del Perù, José de Armendáriz y Perurena, fu invece riconquistata la postazione
avanzata di S. Giovanni, costringendo molti austriaci a tuffarsi in mare pur di
salvarsi.
La sconfitta imperiale - 3.000 uomini tra morti e
feriti e più di mille prigionieri - costò cara al napoletano Giovanni Carafa,
comandante supremo delle truppe austriache a Milazzo, presto rimosso
dall’incarico. In una relazione inviata a Vienna il 16
ottobre 1718 si giustificava riferendo che sia la cavalleria spagnola (dragoni Lusitania) quanto la sua (dragoni Tige) indossavano uniformi gialle,
circostanza che confuse i suoi, i quali furono così sorpresi dal nemico.
Il Castello e la città
murata ai tempi dell’Assedio
Occupato
già prima della guerra dai militari del reggimento Saluzzo, il Castello
di Milazzo non potè ospitare per motivi di capienza anche gli alleati
austriaci, accampati tra la chiesa di S. Papino e la Grotta di Polifemo ed in
parte al Capo. Fece eccezione il loro comandante, il generale Zumjungen, che
per lungo tempo risiedette nel convento di S. Domenico, ai piedi della
scalinata che conduce all’ingresso della cittadella fortificata o città murata.
L’intensificarsi
della guerra spinse invece il comandante piemontese Missegla a trasferirsi
dalla sua dimora abituale al Borgo, il Palazzo del Governatore, alla casa
dell’aristocratica famiglia Lucifero, posta accanto alle mura della cinta
aragonese. Proprio il Missegla ordinò lo sgombero del Duomo per adibirlo a
deposito di frumenti e soprattutto ad ospedale militare. Dispose anche lo
sgombero del Monastero delle Benedettine per adibirlo a deposito viveri e
munizioni, trasferendo le monache nel convento del Borgo attiguo alla chiesa
del SS. Salvatore, posta dirimpetto all’altra chiesa (S. Gaetano) impiegata
provvisoriamente come cattedrale.
Nel
febbraio 1719, a causa dell’elevato numero di soggetti ricoverati nel Duomo
(erano ben 260) ed allo scopo di prevenire un’epidemia (non c’era igiene ed il
fetore appestava la chiesa), furono trasferiti in Calabria 75 pazienti in grado
di tollerare un viaggio via mare. Il 25 marzo 1719 fu seppellito nel Duomo con
tanto di lapide il marchese d’Andorno, comandante supremo delle truppe
piemontesi in Sicilia, deceduto per malattia proprio a Milazzo. Di lì a poco la
cucina al servizio dell’ospedale militare, realizzata sotto la nuova Sacrestia
del 1704, rischiò di incendiarne i pregevoli arredi lignei.
Il
23 maggio 1719 morì tragicamente nel sonno un soldato del reggimento Saluzzo,
precipitato dalle mura della cittadella fortificata. Non riuscendo a chiudere
occhio a causa delle pulci che infestavano il suo giaciglio, decise di
allontanarsi dalla caserma in cui risiedeva per dormire all’aperto. Ma
l’incauta scelta di distendersi sulla sommità delle mura gli fu fatale.
1. Cathedral - Duomo antico
2. Ancient City Hall - Palazzo dei Giurati (Municipio)
3. Benedectine Monastery - Monastero delle Benedettine
Il codice cifrato impiegato
dalle truppe spagnole
Per
evitare che le informazioni riservate contenute nella corrispondenza di guerra
da e per la Spagna potessero cadere in mani nemiche le autorità militari
spagnole adottarono un efficace codice cifrato. Attraverso l’esame della
corrispondenza decifrata del viceré marchese di Lede, inviata da Milazzo
nell’autunno 1718 ed oggi custodita presso l’Archivo General de Simancas, è
stato possibile ricostruire gran parte di tale codice cifrato, costituito
perlopiù da numeri corrispondenti a sillabe o a singole lettere dell’alfabeto.
Lo schema qui riprodotto elenca i singoli numeri impiegati, alcuni dei quali
non mancavano di indicare termini o espressioni di uso comune: è il caso ad
esempio di «regimiento di artilleria» o di «Su Magestad», che la tabella
associa rispettivamente ai numeri 406 e 713.



























